Indiani ed Esercito
Gli scout indiani furono gli occhi e le orecchie dei soldati altrimenti ciechi e
sordi, alle prese con territori vastissimi e sconosciuti dei quali i loro nemici, al
contrario, conoscevano perfettamente ogni palmo. Sarebbe stato impossibile
per uno squadrone di cavalleria affrontare una lunga caccia agli indiani e/o ad
una banda di ribelli senza saperne seguire le tracce ed evitarne le imboscate,
oppure, semplicemente, trovare una sorgente d’acqua alla quale dissetarsi.
Ciò ha valore in particolar modo per la guerriglia che insanguinò gli stati del
Sud Ovest al confine col Messico, territori aspri e feroci quanto chi li abitava.
La tattica delle bande di ribelli Apache, fatta di incursioni rapidissime e brutali
e di successive lunghe fughe in zone di montagna quasi inaccessibili, mise in
crisi l’esercito Usa. Nessuno sapeva dove avrebbero colpito gli indiani né era
in grado di seguirne le tracce; oltretutto i predoni agivano divisi in piccole
bande difficilissime da individuare e conoscevano alla perfezione il territorio,
mentre i soldati erano per lo più immigrati europei che non avevano idea di
come muoversi nelle zone semi desertiche di Arizona o New Mexico. La
ferocia che gli Apache mostravano in battaglia o nei confronti dei prigionieri di
guerra, poi, impressionò i soldati di stanza nella regione, scoraggiandone
l’iniziativa.
Per questi motivi le bande erano inafferrabili e temute come se fossero state
composte da spiriti anziché da uomini. E’ la cruda storia raccontata, ad
esempio, nel bellissimo film di Robert Aldrich Nessuna pietà per Ulzana,
che mette anche in luce i delicati rapporti tra ribelli e guide dell’esercito, uniti
talvolta anche da legami di sangue. Sconfiggere questo popolo sarebbe stato
impossibile senza l’aiuto degli scout: per prendere un Apache, ci vuole un
Apache era solito dire Nantan Lupan, nome Athabaska del generale George
Crook. Chi altri avrebbe saputo evitare i loro stratagemmi sottili o avrebbe saputo
sopportare le marce forzate a piedi, nel deserto o sulle pietraie laviche, sotto
il disco rovente del sole? Nessun altro, se non, appunto, un Apache. Gli scout
più celebri furono ribelli domati che vollero poi proseguire a combattere,
come Chato o Chihuahua, salvo poi, qualche volta, tornare a varcare il
confine e ribellarsi nuovamente, come dopo il massacro di Cibubu Creek.
Diverso, invece, il caso del celebre Apache Kid, che si era arruolato
giovanissimo nel corpo di guide di Al Sieber fino a raggiungere il grado di
sergente. Per lui la ribellione fu una scelta obbligata, dopo che ebbe
macchiato la propria divisa col sangue degli assassini del padre: alla fedeltà
agli Usa aveva preferito la vendetta. Arrestato per omicidio, fuggì e si diede
alla macchia.
Alla fine di questo interminabile conflitto, nel 1886, quando si arrese anche
l’indomabile Geronimo, dopo aver tenuto in scacco con soli trentasei guerrieri
forze enormemente superiori in numero ed equipaggiamento, gli scout
Apache vennero dimenticati in fretta, congedati ed umiliati, privati di armi ed
uniformi e caricati negli stessi treni che deportavano in Florida i prigionieri di
guerra. Diversa sorte ebbe invece il battaglione di guide Pawnee, che
talmente abili erano stati nel loro operato, iniziato nel 1861, da meritarsi il
ringraziamento ufficiale del Congresso nel momento del congedo. Il Popolo
del Corno, così chiamavano loro stessi, per via delle particolari acconciature
dei capelli, si trovarono costretti a scegliere tra la sottomissione agli Stati Uniti
o quella ai Sioux (che nel 1860 avevano annesso i loro territori di caccia).
L’odio per questi ultimi, loro nemici giurati da sempre, li convinse che non
c’era altra strada che allearsi con le giubbe blu; anzi, inizialmente rifiutarono
anche lai paga, accontentandosi dell’equipaggiamento e delle armi.
Furono scelti i fratelli Frank e Luther North, esperti cercatori di piste, per
comandare l’indisciplinato gruppo di guerrieri, e la scelta fu ottima, perché in
breve tempo lo trasformarono in un reparto ordinato ed efficiente.
Quello che nessuno riuscì mai ad ottenere dagli scout indiani fu il rispetto della formalità
della divisa (effettivamente inutile in combattimento, ed anzi d’impaccio, tanto
che gli Apache tagliavano le gambe dei loro calzoni militari, mentre gli
Arikara, semplicemente, non li indossavano). Buffalo Bill notò che gli scout
Pawnee avevano tutti il medesimo equipaggiamento dell’esercito, ma che
nessuno lo usava allo stesso modo.Anarchia nell’abbigliamento, dunque, ma
non c’è nulla di strano considerando che qualunque esercito coloniale della
storia, a lungo andare, ha sempre finito per abbandonare le scomode uniformi
d’ordinanza a favore di indumenti più pratici. Col tempo, però, le cose
cambiarono e gli scout indiani rinunciarono non solo alle pitture di guerra
ma anche ai loro lunghi capelli, piegandosi così alla volontà dei loro comandanti.
Finirono per avere anche una propria insegna, come ogni altro corpo dell’esercito: due frecce
incrociate, che dal 1942 divenne distintiva di tutte le forze speciali Usa.
L’utilità dei consigli degli scout pellerossa ebbe conferma durante la famosa e
sfortunata campagna delle Black Hills: infatti i ripetuti errori di valutazione dei
comandanti militari Usa derivarono principalmente dalla poca considerazione
in cui essi tennero le indicazioni fornite dagli indiani. Si dice che in occasione
della battaglia del Little Big Horn, Coltello Insanguinato (lo scout Arikara che
godeva della piena fiducia da parte del tenente colonnello George Armstrong
Custer) avesse compiuto appieno il proprio dovere, segnalando il pericolo di
attaccare l’enorme villaggio Lakota dopo aver diviso il reggimento addirittura
in tre gruppi, ma che in quella circostanza non fosse stato ascoltato dal
borioso ufficiale comandante del Settimo Cavalleggeri. Il risultato di questo
comportamento è a tutti noto; meno noto, forse, è che in altre precedenti
circostanze Custer si era invece dimostrato meno ottuso e che i preziosi
consigli di Coltello Insanguinato e delle altre guide indiane lo avevano spesso
tratto d’impaccio.
Solo qualche settimana prima dello scontro sul Little Big Horn era già
accaduto un fatto analogo: il generale Crook aveva rifiutato con decisione i
consigli degli scout Corvi e Shoshoni, che gli avevano suggerito di ripiegare,
e aveva pagato con una sonora sconfitta la propria testardaggine. La sua
colonna, infatti, si era scoperta circondata da numerosissimi guerrieri Sioux e
Cheyenne, guidati da Cavallo Pazzo e da Uomo Bianco Zoppo, trovandosi,
oltretutto, in una posizione di combattimento pessima, con gli uomini divisi dal
fiume e pochissimo spazio per manovrare. Crook fu quindi sconfitto, ma evitò
guai peggiori solo grazie all’intervento degli alleati indiani, che, nel corso di
una battaglia violenta, rapida e confusa, mantennero fluide le loro manovre a
cavallo, coprendo così le spalle ai soldati in fuga.
Se poi, in ultima analisi, sembra incomprensibile che un così gran numero di
indiani possa aver combattuto contro gente della propria razza al fianco di
feroci stranieri invasori, basterà riflettere sul fatto che gli europei da qualche
millennio non fanno altro che massacrarsi allegramente l’un l’altro. A un
Pawnee, infatti, non sarebbe affatto andato giù sentirsi chiamare Lakota, così
come a un italiano non piacerebbe molto farsi accomunare con un tedesco o
un francese. Nulla di strano, quindi, se alcuni dei più feroci massacri della
storia delle guerre indiane sono stati anche compiuti da reparti di scout
pellerossa ai danni di tribù loro nemiche. Se c’è qualcuno da biasimare, sono
proprio i militari statunitensi che, incuranti dei fragili equilibri esistenti tra i vari
gruppi etnici di nativi americani, non hanno esitato nello sfruttarne le rivalità e
gli antichi odi, armando sconsideratamente le mani di guerrieri che, avendone
l’occasione, hanno pareggiato i vecchi conti senza risparmiare donne o bambini.